Il frontespizio del Tomo II degli atti relativi al processo "Pagliacci" per

Lesa Maestà a carico di cinque "sovversivi" di diversa estrazione

sociale, tutti collegabili al "Centro Insurrezionale di Orvieto",

processo iniziato nel 1867 e conclusosi nel 1868 con cinque condanne

per "complicità in cospirazione per insorgere contro il Sovrano e lo

Stato", leggi "Pio IX", l'ultimo Papa-Re, oggi "beatificato" (?!), e lo

"Stato della Chiesa".

   

 

                                   

 

                                   

 

                                   

 

                                   

I delitti "politici"

 

                                   

a Roma e nell'Alto Lazio

 

                                   

 

                                   

                                   

 

                                   

Evoluzione dei delitti "politici"

 

                                   

 

                                   

 

                                   

L'Italia alla metà dell'800 aveva circa ventisei milioni di abitanti,

ma le sue città, rispetto a quelle francesi ed inglesi, erano

"sviluppate" ma poco "popolate".

 

Se da un lato svolgevano le funzioni di "Capitali" o di

"Capoluoghi" amministrativi e produttivi, dall'altro non avevano

però un tessuto sociale che comprendesse anche le campagne, o

che si "legasse" ad esse in qualche modo.

 

 

Nelle "città" avveniva tutto, esse infatti erano "rappresentative"

dello Stato costituendone la parte più "moderna" e "significativa",

ben diverso il discorso per le campagne "povere" e con un ruolo

"marginale".

 

Lo stesso Mazzini quando si rivolgeva al "Popolo" si riferiva ai

"Cittadini" e non agli abitanti delle campagne.

 

 

Sarà questo il "tallone d'Achille" dell'Italia quando si giungerà

all'unificazione nazionale, ossia quando si cercherà

un'"aggregazione" tra l'universo cittadino e quello contadino.

 

Ecco perché, riferendosi proprio ai programmi "mazziniani", Marx

individuava in queste orbite diverse il nodo della "questione

italiana".

 

 

Scriveva infatti:

 

                                   

 

                                   

"Mazzini conosce soltanto le città con la loro

nobiltà 'liberale' e i loro borghesi 'illuminati'.

 

I bisogni materiali della popolazione italiana

delle campagne, 'sfruttata' e sistematicamente

'snervata' come quella irlandese, restano

naturalmente al di sotto del cielo delle frasi dei

suoi manifesti cosmopolitico-neocattolico-

ideologici.

 

Invero ci vuole del coraggio per spiegare ai

borghesi e ai nobili che il primo passo per

l'indipendenza dell'Italia è la completa

emancipazione dei contadini e la trasformazione

del loro sistema 'a mezzadria' in una libera

proprietà borghese".

 

                                   

 

                                   

In questo quadro Roma costituiva una realtà "particolare".

 

Il suo "isolamento" e la sua atmosfera "culturale" frenarono lo

sviluppo del Movimento "Liberale" e "Nazionale", che rimase

sempre un po' "confuso" e "incerto" rispetto a quello che si

andava formando dalla "Restaurazione" in poi in altre parti d'Italia.

 

 

Scarseggiavano, infatti, le "notizie" degli avvenimenti interni ed

esterni, anche se "idee", "discussioni" e "programmi" giungevano

ugualmente nella Città Eterna, sia pure in maniera "frammentaria",

attraverso gli scritti sfuggiti al controllo della "censura" ed ai

racconti dei viaggiatori.

 

Arrivavano dalle "Legazioni" emissari di società "segrete"

portando "informazioni" e "direttive", anche se spesso bloccati

nella loro opera di "proselitismo" dall'intervento della Polizia.

 

 

A partire dal 1846 anche i popolani romani vennero scossi

bruscamente e, chiamati in causa, furono invitati a prodigarsi

nella "rivoluzione".

 

Avevano trovato nel proprio seno "capi" come Ciceruacchio, che

parlavano delle "loro" condizioni e dei "loro" bisogni.

 

 

La conferma però della "debolezza" e dell'"isolamento" dei

"Liberali" si ebbe nella conclusione disastrosa del tentativo

rivoluzionario del luglio 1853, subito abortito, sul territorio

romano.

 

La Polizia Pontificia colse l'occasione per annientare tutti gli

"oppositori", ne seguì un clamoroso processo che vide

incriminate 58 persone.

 

 

Le pene furono severissime:

5 condanne "a morte", 8 ergastoli, dai 15 ai 20 anni per i

sostenitori dell'impresa.

 

Qualche personaggio era riuscito a sfuggire a questa violenta

"repressione", tanto che dopo qualche mese si potevano già

cogliere i "segni" di una rinnovata attività del Partito "Liberale" e

"Nazionale", sia a Roma che nella Provincia.

 

 

Bisognerà attendere però gli anni successivi al 1860 per notare a

Roma qualche serio "tentativo" di organizzazione "repubblicana"

e "democratica".

 

Appare evidente che nel corso degli anni Roma non riuscì mai a

creare un'organizzazione a raggio "statale" e le città più vicine,

tutte quelle del Lazio e quelle dell'Umbria, si appoggiavano alla

Capitale in posizione di "dipendenza".

 

 

Molte altre, pur mantenendo rapporti di carattere "associativo"

con il Comitato Romano, godevano invece di una vitalità

"autonoma".

 

Era questo soprattutto il caso dell'Emilia e della Toscana, dove

dopo il 1857 si sentì in maniera più forte l'influenza della Società

"nazionale" grazie anche alla vicinanza con il Piemonte.

 

                                   

 

                                   

 

                                 

 

                                   

 

                                 

 

                                   

 

                                   

Nel pensiero di Mazzini e nella strategia politico-cospirativa che

ne prendeva esempio, Roma e il Lazio occuparono comunque un

rilievo eccezionale.

 

Non tutto lo Stato Pontificio, quindi, ma solo Roma e il Lazio, a

causa di quegli aspetti "simbolici" e quelle considerazioni "ideali"

e "storiche" che valevano per la Città e non per tutto quanto lo

Stato.

 

 

La scelta di Mazzini era stata fatta non per una questione di

"primato" (dato che la parte più sviluppata sia "culturalmente" che

"economicamente" era quella a Nord del Territorio Pontificio), ma

per il richiamo "morale" che Roma esercitava e che già lo stesso

Napoleone aveva sottolineato proclamandola seconda Città

dell'Impero.

 

Grazie alla "predicazione" mazziniana Roma diventò l'epicentro

"morale" e "materiale" della propaganda "patriottica".

 

 

Nonostante le condanne del 1853 l'"ideologia" repubblicana si

sedimentò non solo nella Capitale, ma anche nei paesi dell'Agro,

nei Castelli, nel Frosinate e nel Viterbese, capitalizzando la

"memoria" e l'"attività legislativa" della "Repubblica Romana".

 

Si assistette quindi ad una proliferazione di "circoli", società

"operaie", giornali e organizzazioni di "mutuo soccorso".

 

 

È necessario infatti considerare che, fino al Settecento e per

buona parte dell'Ottocento, la Campagna Laziale venne

amministrata dal Governo Pontificio in virtù di un'organizzazione

territoriale che tendeva ad "appiattire" le realtà "locali" e a

"rafforzare" il predominio della Capitale, relegando i territori

intorno alla città al semplice status di "Campagna Romana" o di

"Comarca".

 

È solo a partire dal 1827, con la riforma "amministrativa"

promossa da Leone XII, che per la prima volta la zona intorno a

Roma ricevette l'organizzazione di una vera "Provincia".

 

 

Dopo il 1849, il dibattito "politico" raggiunse anche le campagne

ed il "dialogo" tra centro e periferia superò la logica

dell'"esclusione" e dell'"assimilazione" divenendo uno scambio

reciproco.

 

D'altronde, a causa del suo carattere "democratico", la

"Repubblica Romana" aveva fin dal principio messo in rilievo il

valore del consenso "popolare" e, per questo, si era trovata di

fronte al difficile compito di "coinvolgere" nel meccanismo

"elettorale" tutte quelle fasce sociali che fino ad allora erano state

"escluse" dal dibattito "politico".

 

 

Uno sforzo che il Governo affrontò anche grazie ad una politica

"culturale", che promuoveva un genere di letteratura a fini

"pedagogici" destinata ad illustrare al popolo la "differenza" tra

"Repubblica" e "Monarchia" Pontificia.

 

Il principale impulso a un'attività "riformatrice" che riallacciasse il

"legame" tra la città ed i centri "periferici", si doveva quindi alla

ricerca di un consenso "politico" a fini elettorali.

 

 

Durante l'ultimo periodo della Repubblica però, nonostante lo

sforzo di "politicizzare" la popolazione delle campagne con la

speranza che essa si sarebbe opposta ai nemici che marciavano

verso Roma, questo intento non si avverò.

 

Il Governo fu costretto ancora una volta a rivolgersi alle campagne

tramite la diffusione di "manifesti" e scritti che, oltre ai consueti

slogan repubblicani, contenevano anche vere e proprie "istruzioni

militari".

 

 

Esemplare in tal senso il manifesto pubblicato poco prima della

resa della Città con il titolo "Istruzione popolare per la difesa dei

paesi dello Stato", dove era scritto che:

 

                                   

 

                                   

"Dai balconi e dalle finestre si dovranno

scagliare le tegole, i mattoni, e le materie

ardenti… sulle strade e punti ove possa credersi

che passi o si fermi l'inimico".

 

                                   

 

                                   

 

                                 

 

                                   

 

                                 

 

                                   

 

                                   

Sembra allora opportuno esaminare alcune delle vicende più

significative legate alla diffusione dei principi "liberali" nel Lazio e

alla loro "repressione".

 

 

A Velletri, ad esempio, era nata una società politica "segreta", in

relazione con l'"Associazione Nazionale Italiana" e guidata

"dall'agitatore dei popoli" Giuseppe Mazzini, i cui soci

"cospiravano" d'insorgere contro il Governo Papale.

 

Gli iscritti dovevano diffondere i principi "rivoluzionari" tramite la

stampa "clandestina", con la divulgazione "orale" e usando ogni

mezzo utile a fare proseliti.

 

 

"Capo" di tale società "segreta" era considerato Giuseppe Sciotti,

salumiere e proprietario di un'osteria, indicato, nel "Monitore

Romano" n. 130 del 13 giugno 1849, tra coloro che difesero la

Repubblica alle porte di Roma.

 

Questi era stato arrestato insieme a molti altri rivoluzionari per

ordine della Direzione Generale di Polizia.

 

 

Un altro esponente di spicco della Società "segreta" di Velletri era

don Camillo Meda, il quale al tempo della "Repubblica Romana",

insieme ad altri sacerdoti, prestò assistenza ai feriti difensori di

quel Governo.

 

Dalle carte processuali risultò che il sacerdote era in possesso di

stampe "favorevoli" alla Repubblica  e che, tra queste, vi era una

"dichiarazione" in cui Meda faceva la sua professione di fede

"liberale".

 

 

Dal carcere poi aveva intessuto una corrispondenza "clandestina"

con altri detenuti con lo scopo di scambiare informazioni sul

"trattamento" loro riservato e diffondere notizie "politiche".

 

Dalle carte del processo del 1853, però, risulta come nessuno dei

condannati per "complicità in attentato all'ordine pubblico

mediante corrispondenza settaria" scontò l'intera pena, poiché

tutte vennero ridotte per "Grazia Sovrana" a sei mesi di

reclusione, da trascorrere nelle strutture carcerarie di Ancona,

Paliano, Corneto e nel carcere romano di San Michele a Ripa.

 

 

Dallo stato nominativo dei "condannati" e dalla "tabella delle

pene" emanate a loro carico dal "Supremo Tribunale della Sacra

Consulta" si rilevava inoltre che a Velletri molti appartenenti alle

più svariate "categorie" sociali si erano riconosciuti nelle teorie

"mazziniane".

 

Alla Società "segreta" appartenevano, infatti, il Conte Antonio

Borgia e alcuni "possidenti", come Antonio Blasi e Filippo

Fortuna, ma anche "artigiani", come Carlo Cipriani, Giuseppe

Martore e il "tipografo" Luigi Cappellacci.

 

 

Il movimento "democratico" abbracciò anche i paesi del "Ducato

di Castro", Corneto e Acquapendente.

 

Non è chiaro però quali fossero le linee guida "politiche" ed i

legami "ideologici" col pensiero "mazziniano".

 

 

L'"Associazione Castrense", fondata nel 1848, era composta dal

"fior fiore" degli abitanti dei 14 paesi che anticamente formavano

il Ducato.

 

In un primo momento vennero nominati come Soci "Onorari"

alcune figure di spicco del panorama "moderato", come Mariani e

Gioberti, mentre, in seguito alla Prima Guerra d'Indipendenza,

vennero aggregati i "repubblicani" come Mazzini.

 

 

Tra i Soci "Ordinari" si distinguevano il Principe Antonio

Bonaparte e Vincenzo Valentini, cognato di Luciano Bonaparte.

 

Tale associazione scriveva il 15 gennaio 1849 un "appello" ai

popoli della Provincia, in cui esaltava la proclamazione della

"Costituente", usando toni "rivoluzionari" più che progressisti.

 

 

Il 21 gennaio dello stesso anno nella Provincia di Viterbo gli

abitanti furono chiamati ad eleggere i rappresentanti

dell'"Assemblea Costituente".

 

Degli 8 Deputati eletti in questa Provincia il personaggio che ebbe

maggior peso nell'Assemblea fu Carlo Luciano Bonaparte,

Principe di Canino.

 

                                   

 

                                 

 

                                   

 

                                 

 

                                   

 

                                   

Quest'ultimo ebbe dei forti legami con l'"Associazione Castrense"

e con le sue frange più estreme, che istigavano il popolo "alle

armi".

 

Nei documenti di Polizia ed, in particolare, nel "Registro dei

Compromessi nell'Anarchia" del 1849 vennero elencati tutti i

membri dell'Associazione, in totale 47, tra i quali spiccano i nomi

dei "mazziniani" Nicola e Francesco Mazzariggi.

 

 

Francesco, in particolare, fu uno dei protagonisti della rivolta che

scoppiò a Cellere.

 

Qui il "Gruppo Democratico", oltre ad "occupare" le Magistrature

cittadine e la Guardia Civica, aveva creato una rete molto stretta

con l'"Associazione Castrense", in cui militavano ben 11 Celleresi.

 

 

Il Mazzariggi, ad esempio, era Consigliere sia del Comune che

dell'Associazione, nonché Capitano della Guardia Civica.

 

La rivolta di Cellere, durata diversi giorni, finì però con gli

"insorgenti" che si diedero "alla macchia".
 

 

L'appellativo "mazziniano", che, nel periodo immediatamente

successivo alla caduta della "Repubblica Romana", era

indistintamente assegnato a "Repubblicani", "Liberali" e

"Democratici", scomparve del tutto dai documenti di Polizia e

dalla corrispondenza tra Comuni e "Delegazioni" Apostoliche

negli anni che vanno dal 1855 al 1860.

 

Seguendo le vicende nazionali, il Movimento "Democratico" si

divise, avvicinandosi in parte a Cavour e in parte alla figura

carismatica di Garibaldi.

 

 

Negli anni '60 si assistette al declino del fronte "repubblicano",

non evitato neanche dal ruolo decisivo dei "Democratici" durante

l'invasione delle Truppe Garibaldine nella Tuscia.

 

Il Tondi ne parlava così:

 

                                   

 

                                   

"Noi del Comitato di Orvieto ci mettemmo

sollecitamente all'opera per riorganizzare i

comitati nella Provincia di Viterbo e nello Stato

di Castro.

 

L'operazione fu faticosa e riuscì appena a trovare

dei corrispondenti in tutti quei paesi e città e

massime in Viterbo.

 

Il verace patriottismo, di cui quella provincia

aveva dal '31 al '60 dato luminose prove, era

quasi del tutto spento per la nefanda opera

del partito moderato".

 

                                   

 

                                   

Il mutamento della situazione politica trova riscontro anche nei

documenti:

l'"Associazione Castrense" stessa voltò indirizzo "politico"

trasformandosi nella "Lega dei Comuni di Castro" e, una volta

impiantatasi regolarmente a Orvieto, iniziò a ricevere gli ordini dal

"Comitato Superiore", composto da personaggi legati a Cavour.

 

Uno dei personaggi di maggior spicco del gruppo originario,

Francesco Mazzariggi, si avvicinò al politico sabaudo con cui

mantenne una continua corrispondenza.

 

                                   

 

                                   

 

                                 

 

                                   

 

                                 

 

                                   

 

                                   

Altro esempio interessante della diffusione dello spirito "liberale"

nel Lazio è il caso di Bracciano.

 

Questa cittadina, in cui non mancano episodi di vivacità "politica"

sin dai primi del secolo, era già nel 1816 sede di una Caserma del

neo istituito "Corpo dei Carabinieri Pontifici".

 

 

Fino al 1847 era stata anche sede del Governo Baronale, ossia

l'amministrazione della "giustizia" era gestita direttamente e a

proprie spese dal Barone feudatario.

 

Nel 1848 gli Odescalchi riscattarono il feudo e decisero di "cedere"

la giurisdizione baronale.

 

 

Nel '49, sull'onda della nuova libertà "di stampa" concessa dalla

Repubblica, arrivarono a Bracciano e a Castelnuovo di Porto

"giornali" come il "Monitore Romano", organo "ufficiale" del

Governo Repubblicano, "opuscoli" e "manifesti" con le notizie

degli eventi più drammatici.

 

Nella giornata del 3 luglio 1849 le Truppe Francesi presero

possesso della Città di Roma e terminò l'"esperienza"

repubblicana.

 

 

Quel giorno tra i superstiti dell'assedio c'era anche un giovane

braccianese, Antonio Cerasari, figlio dell'ex canonico Valentino

Cerasari.

 

Il giovane, secondo un rapporto del "Governatore" di Bracciano,

tra il 20 agosto ed il 7 settembre era più volte tornato a Bracciano:

 

                                   

 

                                   

"Riempì bene la testa di più d'uno sfaccendato,

che qui tengono al Partito Demagogico decaduto,

d'esagerate notizie, assicurando francamente

tutti, che fra poco l'Italia sarebbe stata liberata

dai 100mila Ungaresi, che vi si dirigevano e si

sarebbe riordinato in Roma il governo

momentaneamente conculcato

 

Egli poi si accompagnava in quei giorni al

braccianese Luigi Onori, soprannominato

'Fischietto', il quale era indicato come uno degli

animatori del 'Partito Democratico di Bracciano'.

 

L'Onori, insieme ad Antonio Sala, la notte del

23 settembre intonò canzoni in favore del

Governo Repubblicano e contro i preti:

 

'Evviva la Repubblica, e la libertà…

il Generale comanda, il prete niente più…

morranno scannati i preti e i frati'".

 

                                   

 

                                   

Altro episodio di "turbamento" dell'ordine pubblico si registrò la

notte del 10 marzo del 1850, durante la quale un gruppo di

"scioperati giovinastri" tra cui Cesare Melchiorre, detto "il

Ferrazzuolo", andò intonando nelle bettole del paese inni

"repubblicani".

 

Il Governatore dovette "denunciare" i "fatti" a Roma e la lenta

giustizia pontificia iniziò il suo corso.

 

 

Nel 1851 furono arrestati Antonio Cerasari, sorpreso a Roma in

possesso di corrispondenza "sospetta" e rinchiuso per tre mesi

nelle Carceri Nuove, poi il Sala, incarcerato nella prigione di

Bracciano.

 

Questi fatti mettono in luce il malessere "serpeggiante" nella

Comunità di questa cittadina dopo la "Restaurazione",

evidenziando lo spirito "anticlericale" e "repubblicano" diffuso

soprattutto fra gli "operai" e i piccoli "artigiani".

 

 

Episodi di "ribellione" e "manifestazioni" contro il Governo

Pontificio si ripeteranno con una certa frequenza anche negli anni

successivi, come dimostrano le carte ritrovate negli archivi di

Polizia relative ad arresti per "canti sediziosi".

 

Talvolta la dissidenza "politica" era espressa anche in forme

"singolari", tipiche della realtà del paese, nel quale già la fuga di

una mucca poteva essere l'occasione per gridare "Viva la

Repubblica".

 

                                   

 

                                 

 

                                   

 

                                 

                                   

 

                                   

Il processo "Pagliacci"

 

                                   

 

                                   

Un caso di giurisprudenza

 

                                   

 

                                   

 

                                   

Per comprendere meglio quale fosse il "clima" che si respirava

nello Stato Pontificio e come venisse amministrata la "giustizia",

in particolare nell'Alto Lazio, sembra utile prendere ad esempio un

processo di Lesa Maestà, incentrato proprio su quella determinata

zona.

 

Il processo iniziò nel 1867 e terminò nel 1868 e vide imputate

cinque persone:

Giuseppe Montanucci, Francesco Mazzariggi, Tommaso

Mazzariggi, Francesco Volpini ed il Conte Giovanni Pagliacci

Sacchi.

 

 

Dalle carte del processo si evince come in quel periodo gran parte

degli individui che emigrava per ragioni "politiche" dalla Provincia

di Viterbo si andasse a rifugiare nel territorio di Orvieto, dove

trovava l'appoggio del Governo Sabaudo e, secondo documenti

papalini,

 

                                   

 

                                   

"potevano spiegare liberamente tutta la loro

energia nel 'cospirare' contro il Governo della

Santa Sede cercando proseliti per estendere su

Roma e sulle altre province la ingiusta e violenta

invasione piemontese".

 

                                   

 

                                   

A capo di questa "emigrazione" politica vi era il Conte Pagliacci, il

quale, da Orvieto, soprattutto dopo il ritiro delle Truppe Francesi

dal territorio pontificio nel 1866, aveva iniziato un'intensa opera di

pianificazione delle "insurrezioni" in quei territori.

 

 

I primi ad essere arrestati furono però il Montanucci il 21 dicembre

del 1866 e i fratelli Mazzariggi, Francesco il 13 gennaio e

Tommaso il 9 febbraio del 1867.

 

Questi ultimi furono trovati in possesso di corrispondenza

epistolare "antipolitica", tanto da far pensare che fossero legati al

Montanucci nella "cospirazione" e da far riunire quindi le cause in

una sola "processura".

 

 

L'ultimazione della causa venne però rimandata di diversi mesi,

sia perché fu necessario affidare l'assunzione degli atti specifici ai

Ministri processanti della Provincia di Viterbo (atti che in seguito

furono trasmessi alla Sacra Consulta), sia perché, a seguito della

invasione dei Garibaldini a Bagnorea, il 5 ottobre fu fatto

prigioniero il Conte Giovanni Pagliacci.

 

Sebbene il processo verso gli altri inquisiti era quasi ultimato, si

reputò opportuno "estendere" la procedura anche al Conte, il

quale risultava essere "legato" agli altri imputati da un frequente

rapporto epistolare.

 

                                   

 

                                 

 

                                   

 

                                 

                                   

 

                                   

Lo svolgimento dei "fatti"

 

                                   

 

                                   

 

                                   

Si trattava di un processo di Lesa Maestà e quindi, come per tutti i

delitti di questo genere, si doveva procedere "in via spedita e

sommaria", ai sensi dell'Articolo 555 del "Regolamento Organico e

di Procedura Criminale".

 

Venivano inoltre "derogati" i principî inquisitori, limitando il

diritto di "difesa" e di "contraddittorio" nell'assunzione delle

prove.

 

 

Nella fase di "discussione" della causa non veniva ammesso il

confronto tra i testimoni e l'accusato, come previsto dall'Articolo

560.

 

Organo competente a giudicare era il "Tribunale della Sacra

Consulta".

 

 

Nel caso in esame gli imputati erano accusati di aver partecipato a

vario titolo alle "cospirazioni" avvenute nell'Alto Lazio nella

seconda metà del 1800.

 

Iniziando ad esaminare questo processo politico è opportuno

capire "quali" fossero in primo luogo i "reati" che si contestavano

ai vari imputati e "quali" fossero le "prove" a loro carico.

 

                                   

 

                                   

 

                                   

Giuseppe Montanucci

 

                                   

 

                                   

Originario di Bolsena, aveva 43 anni, era sposato ed era un

possidente terriero.

 

Dall'incarto giudiziale risultava che egli la notte tra il 25 e il 26

novembre 1860 aveva preso parte all'"invasione" di

Acquapendente ad opera di una "banda" armata tra i cui capi era

additato lo stesso imputato.

 

 

La suddetta "banda" aveva aggredito prima la Caserma dei

Gendarmi Pontifici, che furono costretti ad arrendersi e vennero

condotti in Toscana, poi, dopo essersi impadronita delle armi e

degli effetti personali dei prigionieri, aveva distrutto lo stemma

pontificio, sostituendolo con la bandiera "tricolore".

 

Nell'aggressione alla caserma era rimasto ucciso il Sergente

Alessandro Puggi, colpito da un proiettile al viso.

 

 

Alcuni commilitoni testimoniarono che era stato lo stesso

Montanucci a colpire a morte il ragazzo, ma egli si difese

strenuamente dovendo però comunque ammettere di aver

partecipato con il grado di "Tenente" a quei gravi avvenimenti.

 

In più al Montanucci, al momento dell'arresto erano state requisite

diverse lettere del dicembre 1866 indirizzate al conte Pagliacci,

nelle quali si esprimeva dicendo:

 

                                   

 

                                   

"Essere necessario attendere ancora poco…

 

che trattavasi di portare l'ultimo colpo alla

mostruosità del potere temporale…

 

che seguitasse a tenerlo informato dei movimenti

delle truppe papali, e di fargli conoscere il

numero esatto di tutti gli uomini disposti a

prendere il fucile ad ogni conto in Monte

Fiascone e Bolsena".

 

                                   

 

                                   

In un'altra lettera al Sacchi datata 21 dicembre aggiungeva:

 

                                   

 

                                   

"E se non ci facciamo sentire noi emigrati della

Provincia, nulla si ottiene fino a che cadrà Roma.

 

Scrivete a Montecchi e Checchetelli, onde non

dormino che qua sono tutti pronti".

 

                                   

 

                                   

Nei suoi costituti il Montanucci si difese dichiarando quanto fosse

stato "fedele" e "affezionato" al Governo Pontificio fino al 1857,

anno nel quale egli rimase "disgustato" da quello stesso Governo,

perché era stata "concessa" ad altri "la rinnovazione della

privativa della posta da Bolsena a Monte Fiascone, che da oltre

quarant'anni aveva goduto la sua famiglia".

 

Sebbene egli non avesse "protestato", dedicandosi all'agricoltura,

non riuscì a rimanere "indifferente" quando le Truppe Pontificie

stanziatesi in quel territorio trasformarono la sua casa in caserma,

costringendolo ad andarsene.

 

 

Fu così che si unì al Corpo di Volontari del Masi e partì da Orvieto

con la colonna di volontari guidata da Giuseppe Baldini da Siena,

con lo scopo di "occupare" il Ducato di Castro, su spinta del

Governo Sabaudo, che aveva fornito anche le armi e le munizioni.

 

Come detto in precedenza oltre all'accusa di "invasione" armata,

l'imputato era ritenuto colpevole di "cospirazione" e di

corrispondenza epistolare "antipolitica".

 

 

Il Montanucci dovette "riconoscere" di aver scritto le lettere al

Sacchi, giustificandosi e cadendo in contraddizione più volte

durante i duri interrogatori.

 

A suo carico erano state presentate anche le deposizioni "giurate"

di testimoni, che dichiaravano che vi era "voce pubblica" a

Bolsena che l'inquisito era tornato in quei luoghi per promuovere

l'"insurrezione" durante il Natale del 1866.

 

                                   

 

                                   

 

                                 

 

                                   

 

                                 

 

                                   

 

 

   

 

 

Opuscolo "antipolitico" rinvenuto a casa di Francesco Mazzariggi in 4

copie

   

 

                                   

 

                                   

 

                                   

Francesco e Tommaso Mazzariggi

 

                                   

 

                                   

Il primo di 41 anni, veniva da Cellere, di cui era il "Priore", il

secondo aveva 34 anni e, come il fratello, era un possidente

terriero e negoziante di campagna.

 

Nella perquisizione domiciliare effettuata a carico di Francesco

furono rinvenuti:

tredici lettere dell'"emigrato" Giuseppe Pala, due dell'"emigrato"

Agosti, due dell'Alessandrini, una del Castiglioni, un manoscritto

di carattere autografo, quattro copie di un opuscolo "antipolitico"

intitolato "Sulla Questione Romana poche libere osservazioni",

edito a Torino , due copie di altro opuscolo "antipolitico" "Il Clero

e la Società, ossia della riforma della Chiesa" per Filippo Ferretti e

due numeri del giornale "antipolitico" "La Nazione".

 

 

A Tommaso vennero prese due lettere del Conte Pagliacci, una

dell'Agosti e una del Pala, un proclama a stampa "antipolitico", tre

fiori tricolori, un pugnale, due pistole e due bandiere tricolore.

 

Nelle lettere gli "emigrati" esternavano il desiderio di un

"rovescio" del Governo Pontificio e di una "insurrezione" nella

Provincia di Viterbo.

 

 

In una lettera del 1866 l'Agosti si esprimeva dicendo:

 

                                   

 

                                   

"Nelle operazioni nel Ducato di Castro facciamo

moltissimo affidamento su di voi…

 

... per noi che siamo 'rivoluzionari' è una colpa

rimanere anche una sola ora sotto un potere

condannato dagli uomini e da Dio".

 

                                   

 

                                   

I due fratelli "riconobbero" ciascuno le proprie carte e armi.

 

Tommaso fece poi spontaneamente

 

                                   

 

                                   

"la professione di sua fede politica dichiarando

essere di principi liberali desideroso che anche

Roma e le province tuttora soggette alla Santa

Sede siano unite all'attuale Regno d'Italia"

 

                                   

 

                                   

e "protestò" di non aver mai fatto parte di alcuna società "segreta"

e di non aver mai "cospirato" contro il Governo Pontificio.

 

 

Anche Francesco volle "chiarire" di non aver mai "cospirato", anzi

egli aveva anche "rifiutato" di far parte della Direzione della Lega

Castrense, della quale però si rifiutò di dire ai giudici i nomi dei

componenti.

 

Affermò anche, con una non troppo velata "ironia", che le

bandiere "tricolore" in loro possesso erano state esposte nei

giorni in cui Cellere era stata soggetta al Governo Sabaudo e non

erano state "distrutte" una volta restaurato il dominio pontificio

"per timore di doversene procurare altre in seguito".

 

 

Anche nei confronti dei due fratelli furono presentate

testimonianze "giurate" secondo cui entrambi erano per "voce

pubblica" "ritenuti" del partito "avverso" al Governo Pontificio.

 

Nonostante le più accurate indagini, non si provò comunque un

reale collegamento tra i due fratelli e i preparativi insurrezionali

nel Viterbese.

 

                                   

 

                                 

 

                                   

 

                                 

 

                                   

 

 

   

 

 

Copertina o pagina di un libello con ritratto di Garibaldi rinvenuto a

casa di Francesco Volpini

   

 

                                   

 

                                   

 

                                   

Francesco Volpini

 

                                   

 

                                   

Di Monte Fiascone, aveva 36 anni, celibe e possidente.

 

Vennero ritrovate a casa sua: una poesia "antipolitica", un canto

"patriottico", alcune lettere dell'emigrato "politico" Nicola Urbinati,

due fogli con il ritratto di Garibaldi.

 

 

Il Volpini "ammise" anche durante l'interrogatorio di aver seguito i

volontari del Masi nel 1860, quando "invasero" la Provincia di

Viterbo.

 

Come per gli altri imputati vennero anche presentate

testimonianze de relato, secondo cui il Volpini era "ritenuto" un

"liberale" dai suoi compaesani, poiché indossava la camicia rossa

"alla garibaldina".

 

 

Dall'incarto processuale non emergevano però indizi di alcuna

"relazione" tra di lui e gli altri coinquisiti.

 

                                   

 

                                   

 

                                   

 

                                   

Conte Giovanni Pagliacci Sacchi

 

                                   

 

                                   

Il Conte era di Viterbo, aveva 42 anni, ed era un possidente

terriero.

 

Contro di lui, oltre alle lettere rinvenute presso gli altri inquisiti,

erano state ritrovate 12 lettere autografe indirizzate ad un certo

Luigi De Luca.

 

 

Da tali documenti appariva "chiaro" come il Conte appartenesse al

"Centro Insurrezionale di Orvieto" e come da lì avesse cooperato

"con energia" ai preparativi delle "rivolte" nel Viterbese.

 

Il Conte "riconobbe" tutti i documenti ed anche le lettere inviate al

Montanucci e ai Mazzariggi, confessò la sua responsabilità

"primaria" nelle insurrezioni contro il Governo Pontificio, ma si

rifiutò di fare i nomi degli altri "cospiratori".

 

Non ultimo, il Conte era stato arrestato con le armi "in pugno",

proprio mentre si introduceva con una "banda" armata a

Bagnorea.

 

                                   

 

                                 

 

                                   

 

                                 

                                   

 

                                   

Conclusioni

 

                                   

 

                                   

 

                                   

Il Tribunale della Sacra Consulta si riunì il 26 maggio 1868 per

"discutere" e "decidere" ai sensi dell'Articolo 555.

 

Il "Luogotenente" riassunse la causa e poi vennero eseguiti gli

"interrogatori":

dai verbali si capisce come questi ultimi fossero solo passaggi

"formali", in quanto la "volontà" dei giudici si era già formata.
 

 

La sentenza venne emanata dal "Tribunale della Sacra Consulta" il

29 maggio 1868.

 

                                   

 

                                   

 

                                   

 

 

   

 

                                   

 

 

La "Tabella di condanna" emanata dal "Tribunale della Sacra

Consulta" nei confronti di Giuseppe Montanucci

   

 

                                   

 

                                   

 

                                   

Giuseppe Montanucci venne condannato alla galera perpetua per

sedizione, ma la pena venne poi ridotta "per Grazia Sovrana" a 20

anni di reclusione.

 

 

Francesco e Tommaso Mazzariggi furono condannati a 5 anni di

galera per "complicità in cospirazione per insorgere contro il

Sovrano e lo Stato", in base all'Articolo 13 del "Regolamento sui

Delitti e sulle Pene", la stessa pena toccò al Volpini.

 

                                   

 

                                   

 

                                   

 

 

   

 

                                   

 

 

La "Tabella di condanna" emanata dal "Tribunale della Sacra

Consulta" nei confronti di Francesco Mazzariggi

   

 

                                   

 

                                   

 

                                   

Il Conte Pagliacci venne condannato alla galera perpetua, in base

all'Articolo 92 del "Regolamento sui Delitti e sulle Pene", il quale

prevedeva il reato di "cospirazione" per insorgere contro il

Governo e lo Stato.

 

                                   

 

                                   

 

                                   

 

 

   

 

                                   

 

 

La "Tabella di condanna" emanata dal "Tribunale della Sacra

Consulta" nei confronti del Conte Pagliacci Sacchi

   

 

                                   

 

                                   

 

                                   

Anche a lui venne ridotta la pena a 20 anni di reclusione "per

Grazia Sovrana".

 

 

Dall'esame di questo procedimento appare subito chiaro come

fosse difficile la difesa degli imputati accusati di un delitto

"politico".

 

Le pene comminate colpirono con maggiore veemenza i due

imputati Montanucci e Sacchi, i quali avevano partecipato a veri e

propri "atti d'insurrezione" ed avevano svolto un ruolo centrale

nelle "cospirazioni" di quegli anni.

 

Gli altri imputati erano in realtà stati condannati in base a prove

"sommarie"e di dubbia "rilevanza".

 

 

Si pensi ad esempio alle testimonianze "giurate" dei compaesani

dei Mazzariggi e del Volpini, dove si testimoniava la fede "liberale"

di questi ultimi rifacendosi alle "dicerie" di paese e nel caso del

Volpini addirittura al semplice fatto che l'imputato usava

indossare una camicia rossa "alla garibaldina".

 

L'uso di questo tipo di "prova" era finalizzato a rendere più facile

l'incriminazione dei "sospettati" di un delitto di Lesa Maestà,

poiché, come detto in precedenza, questo tipo di processo aveva

lo scopo di servire da "monito" per tutti coloro che avessero

voluto intraprendere le medesime azioni "criminali".

 

 

In più questa decisione metteva in luce che le "cospirazioni" di

quegli anni non coinvolgevano solo lo Stato Pontificio, ma

avevano un carattere "nazionale".

 

Lo dimostra ad esempio la testimonianza di Giuseppe

Montanucci, dalla quale si evince di come fossero "stretti" i

rapporti tra i "Liberali" del Lazio e quelli della Toscana e di come

le "insurrezioni" fossero alimentate in gran parte anche dallo Stato

Sabaudo, dal quale spesso arrivavano anche approvvigionamenti

e aiuti.

 

                                   

 

                                 

 

                                   

 

                                 

                                   

 

                                   

Dal delitto alla pena

 

                                   

 

                                   

La "detenzione"

 

                                   

nelle carceri pontificie

 

                                   

 

                                   

 

                                   

A partire dal "chirografo" * di Benedetto XIV del 1742 le carceri

romane dipesero dal "Tesorierato Generale".

 

[Nota *

 

Il cosiddetto "chirografo" un documento di tipo medievale scritto in due, spesso tre, ma

anche fino quattro copie su un'unica pergamena con la parola latina chirographum nel

mezzo - dal greco χειρόγραφον, cioè scrittoa mano o "manoscritto" - in modo che

ciascuna delle copie poi ritagliate ne contenesse una parte, una specie di ingegnoso

sigillo di "autenticità".

 

 

Nel 1832 con la creazione, all'interno di quest'ultimo, di tre diverse

"Direzioni Generali" e, successivamente, nel 1836, con la

costituzione di cinque "Amministrazioni Parziali", le "competenze"

sulle carceri furono inserite nella "Quarta Amministrazione" delle

spese dello Stato.

 

 

Con l'istituzione da parte di Pio IX del primo "Consiglio dei

Ministri "il 12 giugno 1847 e, successivamente, con quella dei

Ministeri, la "competenza" sulle carceri passò prima alla "Sacra

Consulta", poi alla "Segreteria di Stato" e infine al "Ministero

dell'Interno".

 

A tale Ministero fu assegnata l'"amministrazione" e "direzione"

delle "carceri", dei "luoghi di pena" e delle "case di correzione",

mentre al "Ministero di Polizia" fu riservata la "direzione" sulle

carceri di Roma.
 

 

Il 18 settembre 1848 il Ministero "di Polizia" fu soppresso e le

relative "competenze" passarono al Ministero "dell'Interno".

 

                                   

 

                                   

 

                                 

 

                                   

 

                                 

                                   

 

                                   

 

 

   

 

                                   

 

 

Il frontespizio degli atti relativi al processo contro Annibale Lucatelli

   

 

                                   

 

                                   

 

                                   

 

                                   

Trattamento dei prigionieri "politici"

 

                                   

 

                                   

 

                                   

L'8 dicembre 1889 veniva riportata sul "Cittadino" la notizia

dell'uscita del libro "Martiri Pontifici" di Annibale Lucatelli, con la

collaborazione di Leopoldo Micucci.

 

I due autori erano entrambi ex detenuti "politici" delle galere

papali che, essendo riusciti a "sopravvivere" alla dura prigionia,

avevano deciso di raccontare la propria "esperienza" e quella di

tanti altri detenuti "politici".

 

 

Questa testimonianza "diretta" degli avvenimenti di quel

tormentato periodo storico è preziosa per comprendere quanto

fossero "forti" gli ideali "liberali" che animavano i "patrioti" italiani.

 

Inoltre viene offerto uno "spaccato" di quella che era la "vita" nelle

carceri dello Stato Pontificio, della "crudeltà" con la quale erano

trattati i prigionieri ed in particolare coloro che si erano

"macchiati" di un delitto di "Lesa Maestà".
 

 

Il Lucatelli affronta questo argomento in un capitolo del suo libro

dedicato appunto al "trattamento" dei prigionieri "politici" e

esprimendosi in questi termini:

 

                                   

 

                                   

"Allorché il Tribunale della Sacra Consulta

pronunciava una sentenza contro un reo politico,

la condanna non era quasi mai inferiore ai venti

anni di galera.

 

 

Ed è strano notarsi come i Giudici di quel foro,

tutti religiosi, durante il processo che non era

discusso al pubblico, si cibavano di pasticcini e

d'altre leccornie.

 

A quei cosiddetti 'magistrati' mancava ogni

carattere ed ogni requisito di chi è stato

destinato all'alto ufficio d'interpretare ed

applicare la legge.

 

 

Essi consideravano il reo 'politico' come loro

nemico 'personale' e spogliandosi della dignità

che avrebbero dovuto serbare trascendevano in

ingiurie ed atti volgari contro l'accusato.

 

Ma che questi venisse condannato 'a tempo' o

'a vita', in realtà era sempre condannato

'a morire', se gli mancavano i mezzi per lenire i

patimenti del carcere".

 

                                   

 

                                   

Appare già chiaro da queste prime righe quanto fosse ancora vivo

il "risentimento" verso quella "giustizia" pontificia che, attraverso

il suo "supremo" tribunale, condannava con tanta "leggerezza" e

con tanta mancanza di "decoro".

 

 

L'autore proseguiva poi esaminando più da vicino la "vita" del

prigioniero "politico" affermando che:

 

                                   

 

                                   

"Il galeotto 'politico' rinchiuso ad esempio nel

forte di Paliano, non aveva per vitto che due pani

pesanti diciotto once, ed un cucchiaio di pasta

semolina.

 

 

Il riso e gli altri legumi erano letteralmente la

spazzatura dei mercati, e si tenevano sul suolo

umido nei sotterranei, dove si andavano a

prenderli ogni giorno con le pale per gettarli nei

caldai d'acqua bollente.

 

L'ultimo dei disgraziati prigionieri che riceveva la

sua parte di vitto trovava in quel minestrone ogni

lordura che colava a fondo, sassolini, sterco di

topi, pasta e riso ammuffiti

 

 

... giungevano da ogni parte giovani di

robustissima tempra e di saldi principi liberali;

 

e man a mano corrosi dal tarlo della prigione, si

vedevano deperire e morire miseramente".

 

                                   

 

                                   

Le lettere dei parenti erano prima spedite alla "Sacra Consulta"

che vi "cancellava" ciò che non le piaceva, poi rinviate al

"Comandante" del carcere che completava l'opera di "censura"

prima di consegnarle al condannato.

 

In più il detenuto "politico" non trovava nessun aiuto di sorta dal

Governo, tanto che Lucatelli ricorda di come alcune famiglie che

ebbero i figli carcerati, andando ad implorare gli alti funzionari si

sentissero rispondere:

 

                                   

 

                                   

"Cari miei, se parlate di condannato 'politico',

non se ne fa nulla.

 

Avesse ucciso la madre, vedete, sarebbe forse

più facile di potergli giovare".

 

                                   

 

                                   

Lo "scopo" della reclusione era quindi la "morte".

 

Ma nonostante la "fame", le "dure" condizioni di vita e le

"angherie" dei loro "aguzzini", questi patrioti continuavano a

"cospirare" anche dal carcere.

 

 

L'autore infatti racconta di come uno dei fatti che faceva

meravigliare di più e manteneva in continua "allerta" la Polizia

Pontificia fosse la corrispondenza "segreta" scambiata tra i

detenuti "politici" ed il "Comitato Nazionale".

 

Venivano infatti escogitati i modi più "ingegnosi" per eludere le

ispezioni dei guardiani, che puntualmente non riuscivano a

scoprire le "tracce" di tale corrispondenza.

 

 

Uno dei modi più usati era il praticare un foro nei pezzi più lunghi

di carbone nel quale si riponeva il "messaggio" ripiegato.

 

I due lati, mediante una "miscela" di acqua e polvere di carbone,

venivano poi richiusi perfettamente.

 

 

Ma il dato più "drammatico", che emerge dalle testimonianze

raccolte dal Lucatelli, sono le singole storie dei condannati e delle

gesta a volte "eroiche" che li portarono alla condanna.

 

                                   

 

                                   

 

                                 

 

                                   

 

                                 

                                   

 

                                   

Un esempio

 

                                   

 

                                   

La storia dei fratelli Mazzariggi

 

                                   

 

                                   

 

                                   

Esaminando il libro del Lucatelli e le "toccanti" vicende dei

condannati, non si può non soffermarsi sul capitolo dedicato ai

fratelli Mazzariggi, coinvolti nel processo già esaminato.

 

 

È infatti raro poter esaminare completamente dal momento

dell'arresto a quello della reclusione, la storia dei detenuti

"politici", anche per le lacune nel materiale cartaceo giunto fino ai

nostri tempi.

 

Sembra quindi opportuno riportare "integralmente" i fatti,

lasciando la parola allo stesso Lucatelli.

 

                                   

 

                                   

 

                                   

 

       

 

                                   

 

                                   

 

                                   

 

 

"Venne scoperta una congiura contro il Governo

Papale ordita nella Provincia di Viterbo.

 

I 'cospiratori' furono condotti nel Carcere di

S. Michele.

 

 

Fra di essi erano i due fratelli Mazzariggi, ricchi

mercanti di quelle regioni, giovani di dolci maniere e

di squisita coltura.

 

Il minore, Tommaso, aveva i capelli biondissimi, e

l'espressione dei suoi occhi azzurri, intelligenti,

parlava della gentilezza dell'animo suo.

 

 

Ma una grave malattia nervosa lo affliggeva da

parecchi anni e, per quante cure avesse subito per

guarire, tutto era riuscito vano.

 

Egli soffriva sempre d'epilessia.

 

 

L'altro, Francesco, era di più robusta tempra;

e dopo che fu chiusa l'istruttoria del processo e

stabilita la condanna, fu messo 'di larga', come si

soleva dire fra detenuti, insieme al fratello malato

perché potesse sorvegliarlo ed assisterlo.

 

Lo stanzone delle prigioni di S. Michele, nella

sezione della cappella, era ampio assai, e lungo le

mura a livello del piano sono situate l'una vicino

all'altra le celle dei condannati.

 

 

In un angolo una scala a chiocciola mette sopra a un

ballatoio che corre lungo le pareti a metà circa della

loro altezza, a dà l'adito ad altrettante celle,dividendo

così l'intero stanzone in due grandi piani.

 

La cella dei Mazzariggi era sul secondo piano.

 

 

Questi cari fratelli s'amavano con tutta la forza del

loro giovane cuore, e pel conforto reciproco

sopportavano tranquilli la 'vita' del carcere, pieni di

speranza e di fede nell'avvenire.

 

Compagni indivisibili nel sangue e nelle opinioni,

avevano perduto la libertà per una stessa causa e

ringraziavano mille volte per la Provvidenza che li

serbava uniti anche nella sventura.

 

 

Francesco era un vero esempio di carità fraterna;

vegliava perfino le intere notti quando aveva il

sospetto che Tommaso si ammalasse.

 

E se questi cadeva talvolta in accessi epilettici egli si

adoperava con tutto l'animo a frenare le sue

contorsioni, e a scamparlo dai pericoli cui andava

incontro per le sue straverie.

 

 

E quantunque avesse dovuto praticare potentissimi

sforzi per vincere quelle convulsioni, pure in quegli

atti per necessità maneschi e rozzi, egli sapeva usare

un riguardo al fratello sofferente e lasciava

comprendere come quell'infelice era tanta parte

dell'anima sua.

 

Tommaso lo amava di uguale ardore e lo chiamava

spesse volte il custode della sua esistenza.

 

 

In un bel pomeriggio d'Estate Annibale Lucatelli e

Francesco Mazzariggi discorrevano tranquillamente

poggiati all'indietro sulla spalliera del ballatoio,

guardando entro la cella aperta, mentre Tommaso era

salito su di una sedia presso l'inferriata.

 

Al di fuori di questa era fissata una lastra di lavagna

in senso obliquo con due piccoli ganci verso il lato

inferiore della finestra, e altri due di braccio assai più

lungo verso il lato superiore, formando angolo con lo

spigolo del muro.

 

 

La sentinella che passeggiava sopra una loggia di

fianco alla parete del cortile vedeva benissimo lo

spazio intercedente fra le lastre di pietra e le

inferriate di tutte le celle.

 

Mazzariggi si sentiva bene quel giorno, e forse

poveretto, aveva bisogno di respirare un po' di aria

libera.

 

 

Col capo addosso ai ferri guardava come poteva

all'ingiù attraverso la fessura e diceva, in modo da far

sentire a Francesco che era di fuori sul ballatoio:

 

'Fratello mio, vedo dei fiori bellissimi nel giardino

dei frati;

sono gli stessi che crescono nel nostro villino;

essi mi rammentano quando noi scendevamo ad

innaffiare…'

 

 

Pumh! - un colpo tremendo risuona nella cella e

Tommaso cade all'indietro a braccia aperte e rimane

disteso sul suolo gettando sangue dal cranio

spaccato.

 

La sentinella aveva tirato un colpo.

 

 

Francesco, disperato, balza nella cella, e visto il

fratello ammazzato e il cervello di lui sfracellato sul

muro di faccia, fu preso da convulsioni e rotolò in

terra contorcendosi orribilmente.

 

Lucatelli, salito presso l'inferriata:

'Assassino, - gridava alla sentinella - tu hai ucciso un

innocente!'.

 

 

Il soldato, imperterrito, ricaricava l'arma, e

s'apprestava a fare una seconda vittima.

 

Fra tanto erano giunte le guardie, i custodi, e il

Comandante che ordinò fosse subito trasportato via

Francesco, che strideva disperatamente.

 

 

Ognuno sulle prime credette che il ferito fosse lui,

ma quando si seppe che il povero Tommaso giaceva

cadavere nella cella con la testa fracassata, un urlo

di indignazione si levò tra i prigionieri, e Dio sa che

sarebbe accaduto, se il Comandante non avesse

cautamente ordinato che per quel giorno fossero tutti

rinchiusi.

 

A mezzanotte quattro manigoldi salirono per

trasportare via il cadavere.

 

Il volto di quell'infelice, benché sformato dalla ferita,

manteneva le tracce della sua bellezza."

   

 

                                   

 

                                   

 

                                   

 

                                   

 

                                   

 

                                   

 

                                   

Questo dei fratelli Mazzariggi è un triste esempio di come fosse

"dura" la reclusione nelle carceri pontificie, ma non solo, la

"sopravvivenza" dei prigionieri era determinata dalla "benignità"

della sorte, dato che bastava accostarsi ad una finestra per essere

puniti con la morte!